Processo civile, se preclusioni e decadenze vengono usate come tagliole

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“Troppe preclusioni e decadenze, nel processo civile, danneggiano la giustizia, il processo, i cittadini e gli avvocati”.
Comincia così, la nota di Antonio de Notaristefani, Presidente UNCC – Unione Nazionale delle Camere Civili, che con CNF, OCF, AIGA e ANM siede al tavolo ministeriale per le modifiche al codice di procedura civile.
Queste infatti “in astratto, rispondono ad uno scopo fondamentale: ridurre progressivamente il numero delle questioni da trattare, in maniera che, una volta che su di un aspetto le parti siano state poste in grado di prendere una posizione consapevole, ed il giudice abbia deciso, si possa procedere oltre. Se introdotte in quel momento, quindi, rendono il giudizio più spedito, senza limitare le possibilità difensive dei cittadini; ma possono assolvere al loro scopo se, e soltanto se, cominciano ad operare nel momento in cui ciascuna parte, avendo avuto modo di conoscere e valutare la posizione difensiva dell’altra, sia in grado di confutarla, ed offrire le prove che possano sostenere le sue ragioni. Se, invece, vengono anticipate ad un momento in cui la posizione del convenuto non è nota all’attore, smettono di svolgere una funzione utile, e diventano una tagliola, sotto la quale finisce con il cadere la giustizia e la equità delle sentenze, le aspettative dei cittadini, e la stessa rapidità del processo: una decisione fondata non su una valutazione di ragioni e torti, ma su motivazioni di carattere esclusivamente processuale sarà impugnata con frequenza di gran lunga maggiore rispetto ad una che abbia affrontato il merito delle questioni, perché più spesso sarà percepita come iniqua dal soccombente”.
Il ragionamento di de Notaristefani prosegue passando in rassegna gli aspetti per cui una riforma in tal senso sarebbe dannosa. Riflessioni che non osiamo rimaneggiare, preferendo pubblicarle integralmente.
“La anticipazione delle preclusioni e delle decadenze sin dagli atti introduttivi nuoce:
1) alla giustizia, perché incrementa il rischio che le sentenze siano basate sulla forma, invece che sulla sostanza;
2) al processo, perché ne aumenta, ed in misura considerevole, i tempi di durata, moltiplicando le impugnazioni di decisioni magari anche rispettose della legalità, ma che saranno percepite dai cittadini come ingiuste per essere fondate su ragioni soltanto processuali (non credo sia casuale che i ricorsi per cassazioni siano aumentati a dismisura, da quando le maglie dell’art. 345 c.p.c. sono state ristrette ancora);
3) ai cittadini, perché per un verso li espone al rischio di subire condanne ingiuste, anche se conformi alla legge, che imponeva di comminare loro preclusioni o decadenze dalla facoltà di far valere le loro ragioni, e per l’altro anticipa alla fase introduttiva l’intero costo del giudizio: se bisogna dire tutto e subito, anche il pagamento del compenso dell’avvocato finirà con l’essere dovuto tutto e subito;
4) agli avvocati, che più di frequente potranno incappare in responsabilità per non avere saputo prevedere in anticipo quale sarebbe stata la strategia del convenuto, e soprattutto ai più giovani, perché se è vero che la scelta del legale è condizionata dall’anzianità professionale per il 68,7% (cito dal rapporto Censis 2018) è ovvio che, al cospetto di un aumento dei rischi, i cittadini tenderanno a rivolgersi ai più anziani, evidentemente percepiti nell’immaginario dei clienti (naturalmente non sempre a ragione, specie per materie di elevata specializzazione) come più esperti, e quindi finiranno con l’essere emarginati ancora di più i nostri giovani, già oggi rinchiusi in un recinto di speranze senza sbocco, circondati come sono da bandi pubblici che richiedono, prima ancora che la competenza e la correttezza, minimi di fatturato o di dipendenti che loro non possono assicurare.
E per questo quella anticipazione sarebbe ingiusta, e violerebbe sia il canone di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione, sia la necessità di garantire un processo giusto, imposta al Legislatore dall’art. 111.
Voglio prevenire una obiezione scontata: quella secondo cui nel rito del lavoro – che nel passato sicuramente ha dato buona prova di sé – preclusioni e decadenze “scatterebbero” sin dagli atti introduttivi, e nessuno se ne è mai lamentato troppo.
L’obiezione sarebbe soltanto apparentemente suggestiva, per due ragioni tra di loro autonome.
In primo luogo, va osservato che non è affatto vero che, in quel rito, preclusioni e decadenze maturino sin dagli atti introduttivi, ed in particolare per l’attore con il ricorso.
Non è vero, perché ad escluderlo sono:
A) l’art. 420 comma 1 c.p.c., che consente alle parti, se ricorrono gravi motivi, ed il giudice lo autorizza, di modificare domande, eccezioni e conclusioni;
B) l’art. 420 comma 5, che permette di articolare alla prima udienza i mezzi di prova che non era stato possibile proporre prima (e quindi per il ricorrente anche quelli giustificati dalle difese del resistente);
C) l’art. 421 comma 2, che attribuisce al giudice il potere-dovere di supplire ad eventuali lacune istruttorie facendo uso della facoltà di ammettere di ufficio qualsiasi mezzo di prova.
Va poi aggiunto che, nei giudizi di lavoro, è certamente più facile, per un avvocato esperto, intuire in anticipo quale sarà il thema decidendum, e quale quello probandum: se si discute di straordinario non pagato, è più facile che si dovrà provare l’orario di lavoro, piuttosto che la validità del rapporto.
Ed è quindi per tutte queste considerazioni – oltre che per la necessità, imposta dal principio di eguaglianza, di trattare in maniera ragionevolmente differenziata situazioni diverse – che l’Unione nazionale delle Camere civili ritiene che anticipare preclusioni e decadenze sin dagli atti introduttivi, nel processo civile, sia non condivisibile”.